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Storia ed evoluzione amministrativo- territoriale della  provincia di Rieti dalla Repubblica giacobina 1798/99 all’Unità d’Italia.

a cura di Rita Filippi

 

 

La provincia di Rieti, attualmente costituita da 73 comuni, è una unità territoriale amministrativa con caratteristiche eterogenee per complesse ragioni storiche, la più rilevante delle quali è il fatto che i comuni che la compongono provengono da due Stati preunitari diversi: una parte di essi, infatti, apparteneva allo Stato pontificio mentre l’altra al Regno di Napoli.

Il lento e contraddittorio processo storico di formazione della provincia di Rieti ha alla base una diversità di istituzioni politico amministrative operanti nei due diversi territori che hanno prodotto tipologie di documenti, archivi differenti e soprattutto tale patrimonio è conservato attualmente presso vari Archivi di Stato: di Rieti, di Napoli, dell’ Aquila ed altri Istituti. Per queste ragioni si affronta, in questa sede, la storia dei comuni, dal punto di vista territoriale – amministrativo, del territorio già soggetto allo Stato pontificio mentre, non si affronta lo stesso tema per i comuni che hanno fatto parte del Regno di Napoli, a causa della scarsa documentazione conservata, per lo stesso periodo, in questo Archivio di Stato.

Alla fine del settecento, il nostro territorio, con alcune eccezioni, è una delle provincie più povere dello Stato pontificio, sia per lo scarso reddito, sia a causa delle continue migrazioni, sia per la presenza di molti comuni soggetti ai feudatari laici, soprattutto ai “baroni”romani, ed ecclesiastici; vi sono, inoltre, comunità soggette direttamente al governo centrale, ma anch’esse con diversi gradi di autonomia e  concessioni speciali, un insieme, quindi, di particolarismi e privilegi.

In relazione al processo evolutivo delle strutture territoriali dello Stato pontificio, tuttavia, la fine del settecento, segna l’inizio delle grandi trasformazioni amministrative e territoriali improntate ad una idea dello Stato di tipo moderno le quali, infatti, attraverso un faticoso percorso, porteranno l’Italia a costituirsi come Stato unitario, nell’ottocento.

 Dal 1796 al 1815 anche lo Stato pontificio come gli altri stati europei, viene sconvolto dalle vicende politiche del periodo napoleonico. I cambiamenti del periodo francese, che determinano una rottura storica irreversibile e la riforma degli organismi pubblici messa a punto da Pio VII nel 1816, determinano un assetto complessivo dello Stato profondamente mutato da quello precedente.

Nel contesto dello Stato pontificio di fine settecento, nel quale erano state avviate delle riforme, che tuttavia non avevano sortito grandi risultati, la prima frattura rivoluzionaria si ha con la proclamazione della Repubblica romana, il 15 febbraio 1798; con essa, i principi innovativi della politica amministrativa francese entrano a far parte degli ex territori pontifici. La carta costituzionale, pubblicata il 17 marzo del ’98, riporta la tripartizione tra potere legislativo, potere esecutivo e potere giudiziario mentre nello Stato pontificio permane, ancora, la commistione dei poteri nelle stesse figure istituzionali ( es. tra potere esecutivo e potere giudiziario). La costituzione romana del 1798 è preceduta dalla “Dichiarazione dei diritti e doveri dell’Uomo e del Cittadino” e dall’enunciazione dei due principi fondamentali: “ la Repubblica romana è una e indivisibile; l’universalità dei cittadini romani è il Sovrano”. I principi fondamentali recitano, inoltre, che la società si fonda sui principi della libertà, dell’eguaglianza, della sicurezza e della proprietà. Tutti gli uomini sono uguali di fronte alla legge, senza alcuna distinzione di nascita; nessun potere trasmesso ereditariamente viene ammesso. La garanzia di una ordinata vita sociale è riposta nella divisione dei poteri e nella determinazione dei loro limiti. Senza approfondire altri aspetti della Carta costituzionale, alcuni dei quali anche contraddittori, è da porre in evidenza il contrasto di tali principi con quelli fondanti dello Stato pontificio, stato teocratico e nel quale l’esercizio delle cariche pubbliche è esercitato, per la maggio parte da prelati; i documenti della Repubblica romana, proprio per i principi ispiratori della stessa, riportano il motto: libertà e uguaglianza.

 

 

   Dal punto di vista territoriale lo Stato è diviso in otto Dipartimenti: del Metauro (Ancona), del Musone (Macerata), del Tronto (Fermo), del Trasimeno (Perugia), del Clitunno (Spoleto),del Cimino (Viterbo),del Tevere (Roma),del Circeo (Anagni). I  Dipartimenti sono divisi in Cantoni e quest’ultimi in Municipalità ( i centri con più di 10000 abitanti costituiscono le municipalità, rette da edili, mentre gli altri, sotto i 10000 abitanti sono riuniti in unica municipalità, nella quale ciascuna comune è rappresentata da un proprio edile). Rieti e la parte pontificia dell’attuale provincia,  entrano a far parte del  Dipartimento del Clitunno, secondo il riparto territoriale del 1798, con qualche eccezione. Labro, per esempio, è  aggregata al cantone rurale di Terni mentre fanno parte dello stesso Dipartimento alcune comunità appartenenti, attualmente, alla provincia di Roma.

 Con la legge (28 pluvioso) del 27-02-1800 il cantone perde il ruolo di municipalità divenendo circoscrizione giudiziaria e militare mentre i comuni sono divisi in classi a seconda della popolazione. Il cantone, perso il ruolo di governo reale, incarna il livello periferico dell’amministrazione della giustizia civile e penale con i giudici di pace ed i  supplenti.

In seguito all’intervento delle armate austriache e napoletane e per varie altre cause, l’esperienza della Repubblica romana, di breve durata e senza l’adesione di larghi strati della popolazione, si conclude con la resa (29 settembre 1799) e si succedono le amministrazioni provvisorie e militari fino al giugno del 1800, quando i territori del Lazio, dell’Umbria e delle Marche vengono, finalmente, recuperati.

Pio VII, eletto a Venezia il 14 marzo del 1800, comprende di dover procedere ad una riorganizzazione dello Stato per accogliere, pur con delle limitazioni, alcune innovazioni d’influenza francese, e, soprattutto, con il fine di rendere più razionale il sistema amministrativo, finanziario e giudiziario. Con l’Editto del segretario di Stato Consalvi del 22 giugno 1800 viene riorganizzato il territorio dello Stato ed a capo delle provincie è posto il delegato. Sono istituite, infatti, 7 Delegazioni con il delegato residente nel capoluogo ed, inoltre, le province suburbane, tra cui quella di Sabina, staccata, momentaneamente, dall’Umbria, con capoluogo Rieti.

Il provvedimento consente, inoltre, ai laici, elemento di vera innovazione, l’accesso alle cariche pubbliche, pur se a quelle di minore importanza, negli organi centrali e periferici e, soprattutto, tende ad una razionalizzazione del rapporto tra lo Stato e le autonomie locali, contrassegnato da secolari particolarismi; il delegato rappresenta, quindi, l’autorità dello Stato, in sede periferica.

Con il motu proprio del 6 dicembre 1800, Pio VII ordina che nella Sabina sia ripristinato il patriziato ed istituisce due “ceti”, uno dei patrizi ed uno dei cittadini, affidando al vescovo di Sabina, Giovanni Andrea Archetti, l’elezione dei primi dodici patrizi, formanti la “Congregazione sabina” che doveva amministrare la Sabina , “unica città”, divisa in tante comunità. Per favorire la ripresa economica della provincia, la Camera apostolica ed il Buon Governo concedono particolari riduzioni e facilitazioni alle comunità sabine.

L’istituzione delle delegazioni, tuttavia, incontra notevoli e varie difficoltà: rimangono gli statuti particolari di ciascun comune, diversi gradi di autonomia per ciascuno di essi, la “soggezione mediata” traccia dei rapporti feudali secolari.

Il delegato, inoltre, conserva funzioni amministrative e giudiziarie, connessione tipica delle figure istituzionali di antico regime.

Nel 1809 i Francesi tornano a Roma con un esercito imperiale e il 17 maggio dello stesso anno Napoleone riunisce con un decreto l’ex Stato della Chiesa alla Francia; la Consulta straordinaria riorganizza territorialmente e amministrativamente il territorio che viene articolato nei due dipartimenti del Tevere (che cambia denominazione in dipartimento di Roma nel febbraio 1810, con l’esclusione della città di Roma) e del Trasimeno, suddivisi in circondari (arrondissements) e cantoni. Il  dipartimento del Tevere è costituito da quattro arrondissements: Velletri, Frosinone, Rieti e Viterbo (più tardi si aggiunge Tivoli). A capo di ogni dipartimento vi è il prefetto, nominato dall’imperatore; è previsto, inoltre, il segretario generale di prefettura e il consiglio generale di dipartimento; a capo del circondario è posto il sottoprefetto  coadiuvato dal consiglio di circondario.

I comuni appartenenti ai singoli cantoni sono suddivisi in classi e amministrati dal maire (sindaco) e dal consiglio municipale; i maires durano in carica cinque anni. Il numero dei membri del consiglio comunale varia a seconda della popolazione e cosi, anche, il numero degli aggiunti che coadiuvano il consiglio stesso. Le relative nomine spettano al prefetto per i comuni fino a 5.000 abitanti e all’imperatore per i comuni più grandi. Il cantone è sede di uno o più giudici di pace e supplenti, incaricati dell’amministrazione della giustizia civile e penale.

La complessa riorganizzazione territoriale e amministrativa si definisce nel novembre 1810.

L’articolazione territoriale, che nel periodo repubblicano risulta più frammentaria, ora tende verso un processo di regionalizzazione; la Sabina e Rieti gravitano nell’orbita romana.

L’Umbria e il Lazio, annessi all’impero francese nel 1809, sono riconsegnati al Pontefice nel maggio 1814 mentre altri territori  (Bologna e le legazioni, le Marche e Benevento) ritornano allo Stato pontificio nel luglio 1815 (seconda recupera).

Nel nostro territorio le giurisdizioni feudali rimangono formalmente, ancora, in vigore pur in presenza di una nuova legislazione che, per i gravami imposti, induce la maggior parte dei feudatari a rinunciare ai feudi nel giro di pochi anni; si impone, infatti, ai baroni che vogliono mantenere i loro poteri, di concorrere, in maniera rilevante, alle spese per il funzionamento dell’apparato statale nel territorio relativo.

In tutto lo stato viene revocata, invece, la validità della legislazione statutaria stabilendo, nel 1816, con il Motu proprio di Pio VII sull’organizzazione dell’amministrazione pubblica, una uniformità amministrativa sconosciuta nei secoli precedenti ed ereditata dall’esperienza francese che va nel senso opposto dell’antico coacervo di situazioni e privilegi.

Lo Stato è ripartito in 17 Delegazioni, rette ciascuna da un delegato e divise in tre classi, ad esclusione del territorio romano o Comarca.

Rieti è delegazione di 3° classe divisa nei due distretti di Rieti e Poggio Mirteto con i relativi luoghi baronali. Rieti ha, quindi, una posizione autonoma ma  perde Narni e Stroncone, passati alla delegazione di Spoleto.

Oltre ai rimescolamenti territoriali, si evidenzia l’assenza nella nuova ripartizione di alcune realtà emerse nel periodo napoleonico come sedi cantonali e ricondotte, ora, alla condizione di luoghi baronali (es. Magliano).

Il delegato, un prelato, è a capo della provincia sotto l’aspetto politico, amministrativo e giudiziario penale: ha giurisdizione su tutti gli atti di governo e di pubblica amministrazione nonché in materia giudiziaria penale e corrisponde con tutti i dicasteri centrali di Roma. Il delegato è assistito da due assessori, anch’essi nominati dal pontefice, con funzioni giudiziarie: uno in materia civile, l’altro in materia penale. Alle sue dipendenze vi è il segretario generale ed, inoltre, con voto consultivo, c’è una congregazione governativa, i cui componenti sono nominati dal Pontefice ed alcuni di essi devono essere nativi del capoluogo.

All’interno delle delegazioni vi sono i governi di 1° e 2° ordine amministrati dai governatori, che devono essere nominati dal Pontefice, tramite la Segreteria di Stato e non devono essere nativi del luogo.

Nonostante i limiti, il contenuto innovativo della riforma è innegabile: si aboliscono gli statuti municipali, si dettano norme uniformi per l’elezione dei consigli e delle magistrature, è confermata la presenza dei laici nelle Congregazioni governative. A livello del governo delle comunità, il consiglio è composto da un numero di consiglieri variabile a seconda dell’importanza e del numero degli abitanti della comunità; essi devono appartenere a determinate categorie di cittadini (possidenti, negozianti ed altri) esclusi solo i salariati. Per ogni carica il consiglio invia al delegato una terna e questi nomina anziani e sindaci, mentre, la  Segreteria di Stato nomina il gonfaloniere su una terna inviata dal consiglio al delegato. Il gonfaloniere, capo della magistratura comunale, gli anziani (odierni assessori) e il sindaco, dipendente dal gonfaloniere della comunità principale, ma dotato di una certa autonomia, costituiscono le magistrature del comune. Le competenze principali del consiglio, a cui partecipano, anche, due ecclesiastici nominati dal delegato, sono: l’approvazione della tabella preventiva, le spese straordinarie da approvare, sentita la Congregazione del Buon governo, i dazi da stabilire.  Nelle comunità in cui non risiede il governatore viene nominato un vicegovernatore da lui dipendente; quest’ultimo e il governatore hanno diritto di presiedere le sedute dei consigli comunali. I vicegovernatori, inoltre, definiscono le controversie che si verificano durante le fiere e i mercati, giudicano cause minori, istruiscono i processi loro affidati dai governatori, vigilano per ”il buon ordine, l’igiene e la pubblica incolumità”.

Ma la riforma amministrativa del 1816 e l’assetto territoriale stabilito nel 1817, a causa del persistere di molte giurisdizioni speciali, non portano a quello snellimento dell’amministrazione che si voleva raggiungere:

Dopo la morte di Pio VII nel 1823, inoltre, è eletto Leone XII, prevale la corrente degli zelanti, contraria al Consalvi che  è allontanato, e si procede ad una revisione dell’assetto politico amministrativo e territoriale.

La riforma leonina, con il motu proprio del 5 ottobre 1824, introduce seri cambiamenti a livello territoriale e non solo. Le norme relative alla composizione dei consigli comunali, infatti, nei quali la metà dei seggi è riservata ai ceti nobiliari e le cariche, che dopo una prima nomina da parte del Sovrano, diventano ereditarie, mostrano un intento reazionario.

Il nuovo riparto territoriale  è caratterizzato da un riaccorpamento delle delegazioni che sono ridotte a tredici.

In questo contesto, Rieti è riunita a Spoleto e il Distretto di Poggio Mirteto passa, più tardi,  alla nuova Presidenza della Comarca smembrando l’unità precedente della provincia sabina.

La riforma del 1824, inoltre, pone gli appodiati in netta subordinazione alle comunità principali (nei nuovi consigli non è più garantita la presenza degli abitanti degli appodiati prevista nel Motu proprio di Pio VII e l’assegnazione della metà dei seggi ai nobili o grossi possidenti e dei rimanenti ai cittadini, finisce per escludere la rappresentanza degli appodiati).

Nel 1831, con l’Editto del Segretario di Stato card. Bernetti del 5 luglio, nell’ambito dell’ordinamento amministrativo delle provincie e dei consigli comunitativi, è ripristinata la delegazione di Rieti con i distretti di  Rieti e Poggio Mirteto; presso ogni delegato è stabilito un assessore legale, nominato dal Pontefice che esercita il potere giudiziario penale, in tal modo il delegato o capo della provincia perde la carica di presidente del tribunale criminale mantenendo intatti i suoi poteri politici ed amministrativi.

La delegazione di Rieti è mantenuta nel nuovo assetto amministrativo stabilito dalla riforma di Pio IX del 1850, entrando a far parte della Legazione dell’Umbria:

Il processo verso la regionalizzazione dello Stato pontificio, contrario alla frammentazione politico amministrativa e territoriale dei secoli precedenti giunge a compimento tardi.

Di lì a poco, infatti, nel settembre del 1860, il nuovo governo nazionale nomina il marchese Gioacchino Napoleone Pepoli “commissario generale straordinario nelle provincie dell’Umbria”.

Il commissario Pepoli, con decreto del 15 dicembre 1860 stabilisce la riunione delle precedenti provincie di Perugia, Spoleto, Orvieto e Rieti nella provincia dell’Umbria, con capoluogo Perugia.

I malcontenti creati da tale unione sono notevoli ma nel suo Proclama del 17 dicembre 1860 lo stesso commissario Pepoli spiega ai cittadini dell’Umbria le ragioni di tale provvedimento dicendo:”L’Umbria e la Sabina disgiunte sono quattro piccole e povere provincie…; unite, ed associando le loro forze produttive formeranno una delle più belle gemme del nuovo e potente regno d’Italia.