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MARIO JESSIE W., GARIBALDI E I SUOI TEMPI, Milano Treves 1884

 

 

 

CAPITOLO VENTIQUATTRESIMO

Radetzky invade il Piemonte. - Czarnowsky. - Ramorino. - Disordini nel campo piemontese. - La battaglia di Novara. - Abdicazione di Carlo Alberto. - Venezia resiste ancora. - Garibaldi a Rieti. - Orrori. - Brescia. - Spedizione francese contro la repubblica romana.


Assunto al governo degli Stati Sardi un ministero democratico, risoluto di iniziare la guerra di riscossa, rinacquero la fiducia e le speranze dei generosi piemontesi e liguri.
Ma vi si opponevano diametralmente l'aristocrazia e il clero, e perché temevano il trasferimento della capitale da Torino a Milano, e perché aborrivano dall'idea di una costituente, e perché l'Austria in Lombardia e il papa in Roma erano sinonimi del loro predominio. Donde ogni loro mossa fu rivolta ad impedire la guerra, ad assicurare una catastrofe se inevitabile.

Però temevano e odiavano re Carlo Alberto e l'animoso suo figlio Duca di Genova; mentre nel Duca di Savoia essi si ripromettevano un re forte abbastanza da signoreggiare gli spiriti rivoluzionari, venuto a patti ragionevoli coll'Austria, da restituirli allo stato anteriore al Quarantotto.
Assecondarono queste bieche mire molti ufficiali superiori dell'esercito appartenenti a famiglie aristocratiche (perchè gli ufficiali solo da quel ceto uscivano) che loro malgrado avevano partecipato alla prima guerra per l'indipendenza, dispregiatori dell'elemento volontario, dello slancio popolare, ingannatori del re intorno alla disposizioni d'animo delle popolazioni lombarde, accusandole con calunnie delle mancate vettovaglie e munizioni nell'antecedente campagna.

Deliberata la guerra, scrive il Brofferio, "costoro si irritarono in modo che, gettata apertamente la maschera, non ebbero rossore a persuadere i soldati che la costituzione era una infame baratteria, che la guerra si voleva dai demagoghi per mettere a scompiglio l'esercito e proclamare la repubblica con la restaurazione della ghigliottina.
A queste persuasioni dei comandanti si univano quelle dei preti che in tutti i villaggi predicavano contro la guerra, contro la democrazia. Il contadino chiamato sotto le armi, prima di lasciare la casa paterna, udiva dalla bocca del parroco che la causa dell'Italia era quella dell'inferno, che gli Austriaci erano i sostenitori del papa, gli amici del trono, i difensori dell'altare.

"Mentre Radetzky invadeva il Piemonte, si spargevano nel campo biglietti, proclami, avvisi contro la guerra italiana e la libertà costituzionale. - In generale era penetrata ben dentro la commozione nelle file dell'esercito, né si attendeva che l'ora della battaglia per introdurre in casa il nemico e commettere nella confusione orribili eccessi. - I viveri, solita trascuratezza, già cominciavano a mancare; già in Novara si saccheggiava e si uccideva impunemente. I generali di buona fede non erano ascoltati; il re, sereno in volto, si mostrava alle truppe ed era accolto con sinistro silenzio.
Malgrado le arcane trame, non tutti i soldati si erano potuti corrompere, e non tutti i comandanti erano disposti a prostituire vilmente l'onore delle patrie armi".

E dalla lettera del ministro dei lavori pubblici di Piemonte, Sebastiano Tecchio, a Manin, nella quale spiega le cause e le conseguenze della battaglia di Novara, caviamo il seguente paragrafo:
" Come ve lo dissi altra volta, il soldato piemontese non vuole battersi che per il suo re. Ebbene, addosso di molti fra i morti si é trovato dei biglietti così concepiti "Mentre il soldato crede battersi per il re, a Torino si proclama la repubblica."

Facilmente si antivede l'effetto di tali arti diaboliche fra i nuovi coscritti, 50.000 dei quali erano strappati all'aratro e alle officine, sottomessi ad una disciplina ripugnante, a fatiche inusitate. Si ggiunga la malavoglia di gran parte degli ufficiali, la scelta infelice dello straniero inetto e ignoto Czarnowsky a general maggiore, e di Ramorino, (proprio lui il... ) già traditore della Giovine Italia nella spedizione di Savoia, al comando della divisione lombarda. Le quali cose non ci paiono propiziatrici di vittoria.
Però i buoni esultarono e trassero lieti auspici dalla Venezia in armi, dai diecimila della Repubblica Romana in cammino verso il Po, dall' attitudine minacciosa dell'Ungheria e segnatamente della Lombardia, la quale febbrilmente aspettava il segnale per ripetere le meraviglie delle Cinque Giornate e per vendicarsi delle atrocità commesse da Radetzky e da Haynau dopo l'infausto armistizio.

Novantamila erano i combattenti che obbedivano a Czarnowsky, in sette divisioni e due brigate, il dì 20 marzo quando fu disdetta la tregua.
La divisione Alfonso La Marmora a Parma, la divisione Ramorino alla Cava, la divisione Durando e indi quella del duca di Savoia a Mortara, il resto in su quel di Novara fino a Buffalora: linea di 100 miglia!

I vecchi ufficiali che avevano militato sotto Napoleone non dubitavano che base di guerra fossero Alessandria fiancheggiata da Genova e la destra del Po. Il Czarnowsky invece scelse il Ticino, certissimo che il nemico sarebbe venuto da Magenta. Qui dunque radunò il maggior numero di uomini dell'esercito, non curandosi di Alessandria. Radetzky, radunati i suoi novantamila spartiti in sei corpi, sulla frontiera, s'ingegnò d'ingannare il nemico sulle proprie intenzioni.

La notte del 19 finse un doppio assalto da Trecate e da Pavia, e da nessuno osservato prese possesso del Gravellone. Czarnowsky spinse il generale Perrone oltre il ponte di Buffalora, ma Radetzky che aveva buoni esploratori fu sopra Cava, quella affidata a Ramorino, e costui ritiratosi a Stradella fu contento che duecento dei suoi lasciati al passo lo contrastassero al nemico. Ciò ebbe per effetto che, nonostante l' accanita difesa, Benedeck se ne impossessò, occupando poi Zerbolò e Groppello.

Rimaneva ancora tempo per contrastare a Radetzky il passaggio del fiume, ma solo questi seppe profittarne. Irruppe e vinse a S. Siro; poi, per distrarre l'attenzione dai suoi veri disegni, mandò un gran numero di soldati alla Sforzesca, ove il generale Bes tenne benissimo testa a Wratislaw: e se il Duca di Savoia e il generale Durando che udivano il cannoneggiamento si fossero avanzati a Roggia Birago, sei miglia da Mortara, non sarebbe stata occupata la Roggia durante la notte da settemila austriaci, né Benedek avrebbe potuto assalire la divisioni di Durando - due brigate, separate dal cavo Passerini - né cacciare il generale Alessandro La Marmora entro Mortara, a suon di baionetta, né cacciare da Mortara stessa quella divisione.
In un'ora, 1.700 uomini, due colonnelli, 57 ufficiali si sono arresi; il maggiore Gazzelli sottrasse al disonore due squadroni di cavalleria ed un battaglione di fanti.
Due vie di salvezza restavano agli italiani: tentare con tutte le forze di riconquistare il terreno, - al che si obiettava la mancanza di viveri, la svogliatezza degli ufficiali, l'indisciplina dei soldati che inveivano a viso aperto specialmente contro Carlo Alberto; - Oppure ripassare la Sesia e appoggiarsi ad Alessandria.

Fu già tanto che il duca di Savoia e Durando avessero trasmesso al quartier generale la notizia di avere abbandonato Mortara. La quale notizia arrivò troppo tardi, recatavi da due ufficiali fuggiaschi.
Al quartier generale regnavano la confusione, l'indecisione, la reciproca diffidenza. Il re fu trovato da Cadorna a Novara ignaro degli avvenimenti la mattina del 20, ma pieno di speranza nell'esito dell'impresa; deciso nel giorno stesso di trasportare il quartier generale al Ticino presso il ponte di Buffalora (Il generale di Valdengo, presente al colloquio e presenti i generali Scotti e Robillant, narra che quando Czarnowsky raccontò a Carlo Alberto che le truppe di Mortara non opposero al nemico alcuna resistenza, e fuggirono come tante passere, e che non si avevano notizie del duca di Savoja, il re, rizzatosi, guardò fisso il generale. E un oh ! fu tutta la sua risposta.):

il Czarnowsky invece: "inquieto e concitato e tutto rammarichi per non avere notizie tranquille sulle posizioni occupate dal nemico al di là del Ticino e sui movimenti suoi" il valoroso deputato Josti, presidente del comitato per l'insurrezione della Lombardia, vivamente si lagnava di "essere lasciato senza direzione e facoltà di agire; e ciò perché questo modo di offesa non era dal generale maggiore gradito né reputato utile, anche per le conseguenze". -

Per completare il quadro, e come prova dei tristi effetti prodotti sui soldati dall'azione dissolvente e malefica dei partiti politici affatto discordi nei principi e nello scopo, ma concordi nel demolire la disciplina militare ed il principio di autorità (narra il Cadorna): "in una via di Novara presso la chiesa di S. Marco poco lontano dal palazzo abitato dal Re, mi abbattei in un manipolo di soldati che con atto minaccioso mi fermarono dicendomi: alto là; ci dia dei denari perchè Carlo Alberto non ci dà da mangiare."

"Il re informato in ultimo della fuga da Mortara non poté darsi pace, non per la condotta di Ramorino che se l'aspettava, ma perché il Duca di Savoia, erede della corona, comandante la brigata Cuneo e la brigata Guardie, non si fosse mosso da Olevano e senza combattimenti si fosse ritirato su Robbio" ( Lettera del Senatore Carlo Cadorna sui fatti di Novara del 1849.).

"Però il re, pur sperando tuttavia nella riunione di tutto l' esercito sotto Novara, risolse, ove la fortuna non gli arridesse, di abdicare.
Furono chiamate a Novara le due divisioni di Mortara. Sei ore di cammino. E il duca, di Savoia partito la sera del 21 impiegò tutto il giorno e la notte del 22 per arrivarvi. Alla fine fra le due strade di Mortara e Vercelli furono ordinati in battaglia 44.000 fanti, 2.500 cavalli e 111 cannoni. Le sorti della battaglia dipendevano dal tenere il villaggio d' Olengo e la Bicocca, inespugnabile se gagliardamente difesa. Sopraggiunse indi una deputazione con animo di provocare l'insurrezione nel Vogherese dietro le spalle degli austriaci. Il Czarnowsky vi si è nettamente rifiutato. Radetzky, incerto sulle intenzioni dell'esercito piemontese, mandò il maresciallo Thurn verso Vercelli, Wrastislaw a Robbio, d' Aspre a Garbagna, Appel a Vespolate - dietro, la riserva".

"La base dei piemontesi era Novara, la loro linea di battaglia si stendeva dalla Bicocca, casupola a cavallo della strada di Mortara, fino al canale che corre dietro la cascina della Corte Nuova verso la strada di Vercelli.
La divisione di Durando era schierata alla destra dietro Corte Nuova, alla sinistra della strada di Vercelli. La seconda divisione - brigate Casale, Acqui e Piemonte - si appostava alle cascine della Cittadella, duce Bes. La terza, - Savona e Savoja, - alla Bicocca, agli ordini di Perrone.
Il duca di Genova in riserva con le brigate Pinerolo e Piemonte dinanzi al cimitero di San Nazzaro.
Il duca di Savoja appoggiava l'ala destra con le brigate Cuneo e Guardie, a poca distanza dalla città nei bassi piani sotto le mura verso le strade di Vercelli"
(Relazione ufficiale spedita da Cadorna al ministero.).

Alle 11 l'arciduca Alberto attacca la Bicocca, e, respinto, ritorna alla prova e mette in scompiglio un reggimento di Savona che era in prima linea; ma sostenuto dalla brigata Savoja questo riprende la posizione e si spinge avanti fino alla cascina a destra della Cittadella. Quattro volte respinto l' assalto, sostenuto dalle tre brigate di Bes, il fuoco austriaco rallenta. Perrone s'avanza ancora ma é ucciso alla testa dei suoi. Allora il duca di Genova viene in sua vece, oltrepassa la Bicocca, ove muove il generale Passalacqua, e si spinge fino ad Olengo, donde manda a chiedere rinforzi sentendosi capace con essi di vincere ancora (*). Ebbe due cavalli ammazzati sotto di lui, ma il valoroso prosegue nella lotta, a piedi, quando riceve il messo di Czarnowsky che lo avverte di essersi troppo avanzato e di ritirarsi alla Bicocca.

Allora gli austriaci si riversano al centro, mantenendo vivo anche il fuoco sulla destra e la sinistra; al cadere del giorno, Radetzky si pone tutto intero all'assalto della Bicocca, espugnata la quale, la vittoria é assicurata.

Fu quello di Olengo un momento d'oro per i Piemontesi, e molto pericoloso per gli Austriaci: lo confesserà lo stesso Radetzky . "Tutta l'ala destra correva rischio di essere circondata e andava sempre più perdendo terreno. Se il duca di Genova avesse continuato ad avanzare vittoriosamente e gli fosse stata mandata in appoggio la divisione del duca di Savoia, il D'Aspre sarebbe stato pienamente battuto e la storia d'Italia forse non registrerebbe la sconfitta di Novara. Ma lo Chrzanowsky, che voleva far logorare il nemico in ripetuti attacchi alla Bicocca per poi sgominarlo con forze fresche, anziché sfruttare la situazione ordinò al duca di Genova di ritornare alla Bicocca".
L'errore del polacco fu la salvezza del D'Aspre, che riuscì a rimettere l'ordine fra i suoi uomini i quali poco dopo ricevettero l'aiuto di quattordici battaglioni del corpo dell'Appel, mentre a destra il Kollovrat era rafforzato da una divisione e da Confienza giungeva il corpo del Thurn.
D'Asprè poteva essere battuto solo da un tempestivo contrattacco piemontese, che lo Stato Maggiore invece si rifiutò di lanciare.
Ed era proprio il comportamento che aveva previsto e che stava aspettando Radetzky. Scattata la trappola, gli austriaci dai lati piombarono sui piemontesi chiudendoli in una tenaglia.
Radetzky comandò l'assalto su tutta la linea. Il D'Aspre e l'Appel a destra, l'Arciduca Alberto al centro, Benedeck e Degenfeld a sinistra, postisi alla testa delle loro colonne, attaccarono con impeto, imitati dal Kollovrat che assaliva con i suoi la Bicocca.

"In città - racconta un ufficiale piemontese - il tumulto, la confusione, il disordine erano al colmo; ufficiali e soldati disperati per la troppa sventura; feriti piemontesi mescolati con i feriti e prigionieri austriaci, gementi, con alcuni stritolati dalle ruote delle vetture d'artiglieria che correvano a tutta furia; bande armate senza cibo e senza direzione; comandi non dati, non uditi o derisi; soldati insolenti che abusavano dello scompiglio per rompere in eccessi; la cavalleria che caricava per le strade; l'artiglieria che tirava contro i nemici baldanzosi; fucilate in ogni momento, pioggia dal cielo, sangue e cadaveri per le vie, questo era l'aspetto di Novara che dava rifugio all'esercito di Carlo Alberto nella tristissima giornata del 23 marzo".

La battaglia era costata duemila morti e feriti ai piemontesi, più tremila prigionieri. Altrettanti morti e feriti il nemico e un migliaio circa di prigionieri; ma gli Austriaci erano davanti a Novara, tutti ordinati bene, e quindi tutti pronti a riprendere il giorno dopo l'offensiva; mentre i piemontesi in condizioni peggiori di quando avevano dovuto lasciare Milano.
"molti ufficiali e soldati piemontesi erano senza entusiasmo perché poco favorevoli o addirittura ostili alla guerra" (testimonianza di Gioberti, citata in A. Anzillotti, Gioberti, Firenze 1922, pag. 232).

"Il figlio stesso di Carlo, Vittorio Emanuele II, pur entusiasta per la guerra dello scorso anno, di fronte alle sollecitazioni di iniziarne un'altra in così precarie condizioni com'era in questi mesi l'esercito piemontese, l'entusiasmo lo aveva perso; inoltre era anche dell'idea che un esercito affidato a un rivoluzionario polacco, era un pubblico e patente sfregio dell'autorità del Re e del prestigio dell'esercito stesso. Quanto -lui che era lontano- avrebbe voluto fare per impedirlo!: avrebbe voluto respingere gli avvocati chiacchieroni del potere, la demagogia imperante degli intellettuali borghesi che stavano spingendo suo padre alla catastrofe. Lui che viveva - più del padre- a contatto con la realtà, con una diversa visuale mentale, era convinto che il disordine demagogico era la vera causa dello sdegno dentro l'esercito. Nessuno meglio di lui sapeva queste cose, poiché non viveva né era mai vissuto dentro i "palazzi", ma sempre dentro le caserme. Perfino la religione e la Chiesa -pur di raggiungere il loro scopo- era stata vituperata dai demagoghi anticlericali. E suo padre con rassegnazione fatalista subiva, lo tenevano in pugno con i loro infantili "capricci". (Francesco Cognasso, Vita di Vittorio Emanuele II, Utet, 1942"

 

Fin all'ultimo stette fermo il duca di Genova, e tutto il giorno e in ogni luogo il re; e benché supplicato di non esporsi a morte certa, questi la cercava avidamente; ma essa non ebbe di lui pietà! Molti gli caddero intorno; e al Durando che volle a viva forza condurlo via dai bastioni della città, ove ormai si era ristretta la difesa, egli disse: "È l'ultimo mio giorno, lasciatemi morire."

Nessuna relazione ufficiale o ufficiosa parla del duca di Savoja fra i combattenti o vi allude. - Immobile sotto Mortara, immobile sotto le mura di Novara, egli rimase spettatore passivo dello sfasciamento dell'esercito.

Non si sognava neppure Carlo Alberto, ritirandosi dall'ultimo combattimento alla Bicocca con l'ultima retroguardia, che tutto fosse finito; egli contava ancora su 20.000 soldati di La Marmora e di Fanti, subentrati a Ramorino, sul soccorso di Roma e di Venezia, sulla divisione del duca di Savoja tuttora vergine di fuoco, sullo spirito delle popolazioni che da Casale avevano respinto Wimpfen, e quindi propose il ritorno ad Alessandria e il proseguimento della guerra.

Ma i suoi generali e l'erede del trono additando lo scompiglio generale dichiararono impossibile ogni ulteriore resistenza, e che era necessaria fare la domanda dell'armistizio.
Per il che egli prima di partire dal campo comandò di spiegare la bandiera parlamentare, e il generale Cossato fu spedito alla tenda di Radetzky.
"Descrivere l'aspetto del re - racconta il Cadorna - allorquando egli rientrò nel palazzo, é cosa quasi impossibile; i lineamenti del suo volto, il complesso della sua fisionomia avevano subito una così profonda e così grande alterazione, che basta a spiegare come egli poco tempo dopo morisse, ucciso dal dolore. "

Si ebbe per risposta che
"doveva prima lasciare occupare agli Austriaci il territorio tra il Ticino e la Sesia, di consegnare la cittadella d'Alessandria, in ostaggio voleva il principe ereditario suo figlio; infine che congedasse tutti i non piemontesi che si trovavano nel suo esercito".

Erano patti oltraggiosi, che non si potevano accettare senza buttare nel fango l'onore di una nazione. La decisione più saggia e indubbiamente anche la più sofferta che prese in tutta la sua vita Carlo Alberto, fu quella di mandare a cercare in mezzo ai superstiti di Novara il figlio ventottenne. Nel cuore della notte, dopo una lunga cavalcata, Vittorio Emanuele II giunse a Novara. Al figlio e ai generali e chiese loro se si poteva tentare di aprirsi il passo verso Alessandria per riprendere di là la guerra. Domandò ancora se non fosse operabile una mossa sopra Vercelli. E il no unanime gli fu ripetuto. Avute tutte risposte negative, che era impossibile nelle condizioni in cui erano, disse queste sole parole: "Impossibile! Tutto è perduto, anche l' onore."

E proseguì: "Ho sempre fatto ogni possibile sforzo da diciotto anni a questa parte per il vantaggio dei popoli; ma è dolorosissimo vedere le mie speranze fallite, non tanto per me, quanto per il paese. Non ho potuto trovare la morte sul campo di battaglia come avrei desiderato. Forse la mia persona è ora il solo ostacolo ad ottenere dal nemico un'equa convenzione; e siccome non vi è più mezzo di continuare le ostilità, io abdico da quest'istante la corona in favore del mio figlio VITTORIO EMANUELE, lusingandomi che, rinnovando le trattative con Radetzky, il nuovo Re possa ottenere migliori patti e procurare al paese una pace vantaggiosa".
Poi, additando il duca di Savoia indicò il figlio e disse, "Ecco il vostro re !" .
"Da questo momento io non sono più il re". Ordinò a Cadorna di scrivere il passaporto per Francia, Spagna e Portogallo sotto il nome di conte di Barge, ufficiale superiore piemontese in missione; e partì la notte stessa con un solo servitore per il suo secondo e ultimo esilio!
VITTORIO ENAMUELE riceveva lo scottante scettro dal padre, che abdicava, e già pronto a partire per l'esilio.

Il 25 Carlo Alberto era a Nizza e a Teodoro Santarosa, figlio di Santorre, giunto a confortarlo, diceva: "In qualunque tempo si alzi da un qualsiasi governo una bandiera contro l'Austria, possono esser certi gli austriaci di trovarmi sempre soldato nelle schiere dei loro nemici".
Rimessosi in viaggio, per la Francia e la Spagna (a Tolosa confermò l'abdicazione con atto rogato dal notaio Juan Fermin de Furumdarena), si recò in Portogallo nella solitaria villa di Entre Quintas, a Oporto.

Carlo aveva appena compiuto cinquant'anni: il 28 luglio a Oporto moriva di crepacuore.
Carlo Alberto fu definito una delle figure più enigmatiche della storia italiana, giudicato nei modi più contraddittori, sia dai contemporanei sia dagli storici successivi, un sovrano perpetuamente dibattuto fra l'onore e il dovere, fra i contrastanti impulsi che gli venivano dall'educazione liberale (avuta in Francia nel periodo napoleonico) e gli obblighi verso la conservatrice tradizione dinastica nella quale si trovò improvvisamente inserito.
In realtà CARLO ALBERTO nonostante le impressioni che suscitava, era sempre vissuto in una perenne crisi, con profonde contraddizioni con sé stesso, perfino angoscianti, da soffrirne moltissimo.

Come dovette soffrire quella notte a Novara! e poi in quella lunghissima ininterrotta galoppata fino ad Oporto, lungo il percorso, ripercorrendo tutta la sua esistenza; prima cadetto bonapartista, poi timido liberale, poi duro conservatore e filo-clericale, poi nuovamente liberale, infine non credendo alla sua forza e alla sua anima democratica, indeciso, attanagliato dai dubbi e dalle contraddizioni, in una poco limpida guerra; a Verona prima, a Novara poi.

Come re e come uomo si dichiarò sconfitto; abdicò, e partì per l'esilio forse già con la morte nel cuore. Un atto nobile, ma molto doloroso; perché rappresentava quella fuga nella notte, il riassuntivo gesto di un intero fallimento esistenziale. Era cresciuto in due mondi incompatibili fra di loro, ma non riusciva ad appartenere né all'uno né all'altro, anche se non mancarono alcune impulsività geniali controcorrente alla sua dinastia, dovute forse solo alla sua impulsiva esuberante e ribelle giovinezza.
Moriva ad Oporto dopo poco più di cento giorni d'esilio; di crepacuore; una fine che ci appare come il riscatto di una vita ambigua ed enigmatica; una morte che si portava via un re molto orgoglioso, ma restituiva un uomo umile, soffocato dal dolore di un'esistenza che forse ritenne "vuota", ma che c'era un'altra strada da percorrere, quella che nella famosa lettera definiva "una meta più sublime". Non riuscì nel suo grande progetto; non fece in tempo a diventare il sovrano di un grande regno, ma morì da uomo; come un uomo comune: di dolore.

Alcuni questa sensibilità la compresero solo dopo morto, fino al punto che, vissuto e uscito dalla scena storica, con attorno tanta inimicizia, iniziò a guadagnarsi postuma (divenne "il martire di Oporto"), tanta stima, affetto, simpatia, anche da chi lo aveva sempre odiato. Fu l'ultima onorevole, intelligente, ammirevole e anche commovente uscita di scena di un Savoia in Italia.

Come non ricordare quella lettera scritta nel suo punitivo "esilio" di "nipote degenerato", in Toscana, a Poggio Imperiale: in quei mesi alternava i pensieri autodistruttivi e i sogni d'imprese gloriose con quelli degli abbandoni mistici, come questo... (e che purtroppo già anticipavano la triste uscita di scena):
"Fuggo ogni consorzio più che mai - scriveva allora al Poggio. - Parlo il meno che posso. Non esco a cavallo che quanto basta per muovermi. Voglio studiare ma sono distolto dai miei tristi pensieri; e del mio passato mi consolo pensando che Dio è il giudice supremo, il quale vede le azioni di tutti, finisce per smascherare la calunnia e mi chiamerà forse a sé prima che l'intera luce si faccia sui miei atti; ma farà sì che almeno le pene che soffro si volgano in bene per mio figlio (Umberto I - Ndr.). Ho sempre considerato la vita come un viaggio che ha una meta sublime: il cammino è assai aspro, ma non perdo la speranza".
L'ultimo viaggio davvero "assai aspro", e senza "più nessuna speranza", fu quella lunga galoppata fino ad Oporto; e ad attenderlo la "meta sublime".
Senza più il "forse", ma semmai col profetico "Chiamato prima che l'intera luce si faccia sui miei atti".

Il nuovo re, la sera stessa dell'abdicazione del padre, non perse tempo. Il giorno dopo iniziò la sua improba impresa e mandò al quartiere generale austriaco il ministro CADORNA e il generale COSSATO chiedendo di trattare le dure condizioni imposte al padre. Radetzky, alla notizia della abdicazione, rispose che accettava di fissare i patti con il nuovo re. Il giorno dopo VITTORIO EMANUELE dovette recarsi dal vecchio maresciallo che lo aspettava in una cascina di Vignale.
L'anzianissimo maresciallo (aveva 83 anni!!) con curiosità e quasi paternamente acconsentì al colloquio di questo a lui sconosciuto principe 28enne, da soldato divenuto all'improvviso re.
Con il giovane, il vecchio maresciallo simpatizzò subito, ma sulle condizioni rimase fermo. Cercò nel colloquio di trascinarlo nella scia del governo di Vienna. Ma il giovane esuberante principe (più per carattere che non per razionalità politica) fu molto abile nel rivendicare la sua piena libertà d'azione "evitando" discussioni sopra punti molto delicati, che del resto a digiuno com'era di questioni politica interna ed estera, certo non poteva sostenere con il super navigato interlocutore con 27 guerre alle spalle combattute come generale. Gli espresse solo l'intenzione di impugnare fortemente le redini del governo e di domare quel partito democratico che -disse- "odiava".

Convinse insomma Radetzky, affermando che avrebbe iniziato una dura politica reazionaria per ritornare al regime assolutista, al pari degli altri principi italiani. Radetzky forse affascinato da quell'atletico giovane che sprizzava orgoglio da tutti i pori, acconsentì a modificare in parte le pesanti condizioni, a patto che si attenesse ai trattati di Vienna del 1815. Ma non riuscì a fargli stracciare quel documento dell'annessione della Lombardia, nè lo Statuto Albertino, né a imporgli un proclama da fare ai cittadini per sconfessare che quel documento fatto da suo padre non valeva più nulla. Il giovane principe gli fece notare che sarebbe stata un'umiliazione rinnegare davanti ai cittadini quel proclama, lui avrebbe perso prestigio e autorità prima ancora di esserne investito, avrebbe fatto solo la figura di un burattino nelle sue mani.
Insomma anche qui persuase Radetzky. Anche perché non era poi così molto importante formalizzare un rieditto, gli austriaci palesemente avevano rioccupato Milano e tutta la Lombardia.
Si narra che, avendo il Radetzky cercato di indurlo con lusinghe ad abolire lo statuto Vittorio Emanuele rispondesse:
"Ho giurato come principe, sto per giurare come sto per giurare come sovrano. La bandiera innalzata dal mio padre non può essere ripiegata senza tradimento. Non cerco alleanza dall'Austria: domando tregua e mi affido all'avvenire".
Un tipo del genere al vecchio generale indubbiamente piacque. Nemmeno suo padre gli aveva mai parlato così. Dissero i maligni, che Radetzky nel lasciarlo lo abbracciò pure; un gesto che non va certo a suo disonore.

Invitato a passare in rassegna le truppe imperiali, ne percorse le file al galoppo con spavalderia, non certo con lo spirito di un sovrano perdente, quasi a significare di essere ancora capace di contrastare il terreno al nemico con le armi in pugno.
Uscito a testa alta dal quartier generale di Radetzky, il nuove re ora doveva affrontare i problemi interni. Di non facile soluzione. Ma anche qui fu abbastanza abile, istintivo. Pubblicò il proclama della pace alla nazione sotto la sua sola responsabilità, con la sola sua firma. Non vi figurava nessun nome del governo. La monarchia riprendeva contatto direttamente con il popolo, "le cui reazioni potevano essere imprevedibili se si agiva diversamente". Eppoi, far firmare una pace proprio da chi (governo di demagoghi) aveva voluto una guerra offensiva così sciagurata sarebbe stato anche grottesco.

Non fu invece così facile e subito per gli sventurati soldati; i lombardi e gli animosi piemontesi non si capacitarono che tutto fosse finito e che le antiche catene fossere ribadite sui polsi della patria. Così pure a Venezia, che da otto mesi non aveva mai smesso di difendere la città

Il governo di Venezia aveva pronti 17.000 uomini disciplinati e infiammati. Annunziatigli ufficialmento il 31 marzo dal viceammiraglio Albini, la catastrofe di Novara, l' abdicazione di Carlo Alberto e l'ascensione al trono di Vittorio Emanuele, ragguagliò l'assemblea il 2 aprile, confermando l'armistizio, la fuga di Carlo, ma non trascurando di dire che Genova era insorta, che Casale era pure essa in armi contro gli austriaci, che si nutrivano buone speranze anche altrove; a quel punto Manin presentò i seguenti quesiti:
"L'assemblea vuole resistere al nemico?"
Ogni deputato, alzatosi dal suo seggio, rispose: Sì!
E Manin: Ad ogni costo ?
I rappresentanti unanimi risposero tutti : Sì, ad ogni costo !
All'unanimità fu adottato il seguente decreto:
"In nome di Dio e del Popolo,
L'assemblea dei Rappresentanti di Venezia
DECRETA
Venezia resisterà all'Austriaco ad ogni costo.
Il Presidente Manin è investito a quest'effetto di poteri illimitati.

Indescrivibile l'entusiasmo del popolo in piazza San Marco; e subito esso ottenne dal governo che una bandiera rossa annunciasse alla squadra nemica nell'Adriatico, all'esercito stanziato in quel di Mestre, dal campanile della basilica, la resistenza ad ogni costo. E affinché tutti tenessero a memoria l'eroica decisione, fu coniata una medaglia di bronzo col motto
« Ogni viltà convien che in te sia morta. »

I veneziani si sapevano circondati e chiusi dagli austriaci, abbandonati dalla flotta sarda, e con la Francia e l'Inghilterra indifferenti; soli contro la potenza dell'impero austriaco inebriato dalla vittoria, assetato di sangue, anelante vendetta.
"La storia - esclama Edmondo Hagg, console americano, nel dispaccio al governo di Washington - non conosce atto più sublime di questo. Esso ricorda la scena della dichiarazione dell'indipendenza degli Stati UNiti d'America".

In quel momento l'unico nemico riconosciuto dall'Italia era lo straniero, e mentre Brescia resisteva e Guerrazzi ai livornesi insegnava: "Se gli austriaci prevalgono, la condizione dei vivi é peggiore di quella dei morti, perché morirono senza vergogna e non li turba nel sepolcro lo scherno dei figli".

I romani della città e delle provincia si armavano per respingere l'invasione.
E Garibaldi da Rieti il 1° aprile indirizzava ai triumviri una lunga lettera, nella prima parte della quale egli segnala le basse calunnie onde i preti e i reazionari cercavano di scalzarlo nella stima delle popolazioni e nella fiducia dello stesso governo di Roma.
La lettera così conclude (Archivio Saffi):

"Io non vengo a chiedervi il comando dell' esercito, io vi chiedo soltanto di lasciarmi prendere la via Emilia, autorizzarmi a chiedere gente ed armi, a proclamare la leva in massa sulle strade ch'io devo percorrere, e di incaricarmi della Divisione che si trova nel Bolognese per operare nei Ducati, nella Lombardia, ecc., con facoltà illimitate ed in combinazione con le forze toscane, liguri, piemontesi che operino contro i tedeschi.
Per supplire alla mancanza nostra su questa linea sono sufficienti per ora i due battaglioni e mezza batteria che si trovano in Terni in questo momento.
Vi osserverò di più, che noi siamo forza inutile finché non ci mandiate i fucili, e questi non tarderanno meno di 20 giorni, forse di un mese, ed in tali 20 giorni io spero di potermi presentare davanti ai tedeschi; e di trovare cammin facendo fucili in Ancona, in Livorno, Firenze, Genova, ecc.
Vi prego, di rammentarvi che, comunque si dica, ho diritto anch'io di conoscere la guerra e che io non l'ho provata con parole. Poi presumo conservare alcun prestigio tra le popolazioni dell'Umbria, Romagna, Toscana, Liguria, ove già sono conosciuto; di più, ho dei bolognesi e dei lombardi capaci di muovere le loro province.
Io credo dunque che se non faremo grandi cose, almeno possiamo sorreggere lo spirito dei nostri, che non é difficile pensarlo alquanto abbattuto dalle sconfitte dell' esercito piemontese. La prova che godo di qualche nome fra bolognesi e lombardi si é che non meno di seicento si sono riuniti a me da quando sono a Rieti ad onta della distanza e del disagio.
Chiedo dalla vostra gentilezza una risposta favorevole. Vostro
G. GARIBALDI -

Fu la certezza di poter fare molto per la sua patria, non smania di comando o sete di gradi che dettava queste parole, che ispirava queste proposte, allora ragionevoli perché ancora tutti speravano che il nuovo re si sarebbe sottratto all'obbrobriosa pace, e che la Toscana non avrebbe mai accettato il granduca, ma unita a Roma avrebbe anch'essa contribuito alla resistenza. E quando ricevette a Rieti il brevetto di tenente colonnello, Garibaldi, mostrandolo ad Augusto Vecchi, disse
"Non ho mai combattuto per la conquista di gradi o di onori. E se la repubblica mi vuole semplice soldato, io servirò l'Italia, col moschetto in mano, per conquistarle con gli altri suoi figli, indipendenza e libertà."

Da Rieti partivano, con ogni corriere, accuse vaghe contro Garibaldi e le sue genti. Da una lettera del preside di Rieti ai triumviri, della quale questi raccomanda il segreto, citiamo il seguente brano: paragonato Garibaldi a uno di quei padri che s'inquietano se altri fanno loro conoscere le impertinenze dei figli e vogliono sostenerli a ogni modo:
"Ora alle cose solite si sono aggiunti gli insulti ad ecclesiastici e a pratiche religiose. Da questo venne che ieri i parroci si son rifiutati di andare a benedire le case ed io non ho potuto indurveli con preghiere, né ho creduto di obbligarveli per non correre incontro ad inconvenienti maggiori" (Archivio Saffi).

Questo era il vero torto di Garibaldi; il suo disprezzo per frati e preti. Eppure un episodio narrato da Ripari (Manoscritti inediti) dimostra, che, se egli faceva o lasciava fare qualche sfregio alla "santa bottega" in cose di attinenza spirituale, quando si trattava di atti, comunque a danno di un frate, il colpevole era punito con estremo rigore. Un soldato consegnato per violata disciplina in un convento, non essendovi a Rieti una prigione militare, scherzava spesso con i frati e ad uno di costoro disse un giorno:
"Se potessi avere un pezzo del legno della vera Croce sulla quale fu morto Cristo, io combinerei tale talismano che mi renderebbe invulnerabile; nessuna palla mi potrebbe a uccidere".
E il frate: "Io ho la fortuna di possedere un pezzetto della vera croce" "Prestatemelo dunque !"
Ed il frate consegnò una piccola reliquia che conteneva un frammento di legno.
"Ma - disse il prigioniero - mi ci vuole anche una gallina nera"
Questa poi il frate non la diede; e per ottenerla, il prigioniero si rifiutò di restituire la reliquia.
Il frate disse a Garibaldi della frode, e questi ordinò che il delinquente fosse condotto in piazza con un cartello attaccato sul petto, con sopra scritto la parola "Ladro" in lettere cubitali.
I volontari, vedendo che portava l' abito dei legionari da lui reso indegno, cominciarono a lapidarlo. Ripari, sdegnato, riuscì a sottrarlo alla barbara vendetta. Sottoposto a un giudizio di ufficiali, quegli fu mandato assolto. Io - dice Ripari, facevo parte del Consiglio e il generale mi tenne il broncio per il mio voto.

Contenti poi erano tutti di ricevere l'ordine per la partenza, come appare dalla seguente lettera a Mazzini di Daverio, capo di stato maggiore di Garibaldi e uno dei più valorosi ufficiali che questi mai abbia avuto:
"Caro Pippo,
Evviva la partenza ! gridano tutti, stanchi di trovarsi in un paese d'ingordigia e diffidenza a cagione della guerra mossa alla carta che l'intendenza ci mandava per comperare il pane. Del resto si parte senza che il più infimo dei soldati lasci un quattrino di debito.
Evviva la partenza e andiamo. Ma -quanto vantaggio siamo costretti di veder perduto, quale elemento d'entusiasmo ci tocca veder mancare ! Non abbiamo fucili. Sopra 1264 uomini, meno di 500 fucili. Figuratevi in quei paesi che si attraverseranno quale effetto produrrà una legione male armata!
Perdonatemi la ripetizione che in cinque mesi il ministero, il governo, l'assemblea, che so io, non hanno dato 100 fucili a Garibaldi, e ora andiamo al campo ancora con quelle stesse armi che il generale ebbe la previdenza di portare con se.
Andiamo, la faremo a coltelli, a sassate, ma vi assicuro che non saremo da meno dei Fabii, quindi o vittoria, o non ci rivedrete. Salvate, vi prego, la vostra vita alla salvezza di quelli che rimarranno. Però in mezzo a tutto un lume m'irradia e pare mi dica che il popolo deva risorgere, perché il suo supplizio é stato consumato.... Salute, vostro DAVERIO
Rieti, 12 aprile".


Il 19 aprile, la legione garibaldina arrivò a Subiaco e di qui mosse per Anagni, da dove Garibaldi scrisse a sua moglie Anita la seguente lettera:

"COMANDO DELLA PRIMA LEGIONE ITALIANA.
Subiaco, 19 aprile 1849.
Amatissima Consorte,
Ti scrivo per dirti che sto bene, e che sono diretto con la Colonna ad Anagni, ove forse giungerò domani, e dove non potrei determinarti la durata del mio soggiorno. - In Anagni riceverò i fucili e il resto del vestiario della gente. - Io non sarò tranquillo sino all'arrivo di una tua lettera, che mi assicuri esser giunta, tu, felicemente a Nizza. - Scrivimi subito: ho bisogno di sapere di te, mia carissima Anita - dimmi l'impressione sentita agli avvenimenti di Genova e di Toscana. - Tu donna forte e generosa! con che disprezzo non guarderai questa ermafrodita generazione d'Italiani - questi miei paesani ,che io ho cercato di nobilitare tante volte, e che così poco lo meritavano. - È vero ! il tradimento ha paralizzato ogni slancio coraggioso; ma comunque sia: noi siam disonorati e il nome italiano sarà lo scherno degli stranieri d'ogni contrada. - Io sono sdegnato di appartenere ad una famiglia che conta tanti codardi; ma non credere perciò ch'io sia scoraggiato ! che io dubiti del destino del mio paese - io nutro più speranza oggi che mai.
Impunemente si può disonorare un individuo; ma non si disonora impunemente una nazione - i traditori, ormai, sono conosciuti. - Il cuore dell'Italia palpita ancora - e se non è sano del tutto, é capace di aver recise le parti infette che lo travagliano. - La reazione, a forza di tradimenti e di infamie, é pervenuta a sbigottire il popolo - ma! il popolo non perdonerà le infamie ed i tradimenti alla reazione. - Uscito dallo stupore, egli, si rialzerà terribile ed infrangerà questa volta i vili strumenti del suo disonore.
Scrivimi - ti ripeto: ho bisogno di sapere di te, di mia madre e dei bimbi - per me... non affliggerti - io sono più che mai robusto; e con i miei mille duecento armati, mi sembra d'essere invincibile.
- Roma prende un aspetto imponente - attorno ad essa si rannoderanno i generosi e Dio ci aiuterà. -. Presenta i miei saluti ad Augusto, alle famiglie Galli, Gustavin, Court ed amici tutti - io ti amo - tanto tanto! e ti supplico di non affliggerti.
Un bacio per me ai ragazzi, a mia madre, che ti raccomando tanto. - Addio, tuo
G. GARIBALDI" -

E' poi importante questa seconda lettera di Daverio, la quale ci fa conoscere come la convivenza con Garibaldi innalzasse il difensore di Montevideo nella stima dei suoi e come l'idea di soccorrere la Sicilia dal continente, conducendovi pochi e valorosi, fosse il suo sogno di undici anni prima di poterlo realizzare.

"Caro Pippo,
Il generale ha un pensiero e credo che meriti tanto riguardo.
La Sicilia ha bisogno di un'agente (forza) morale che la conservi nel suo eroismo; altrimenti può cadere; e l'Italia del popolo non potrebbe più contarla e la sua popolazione non crederebbe all'aiuto di chi lo rifiutò nei migliori momenti. L'agente morale é di tentare un colpo sul regno, ciò che si può effettuare in differenti modi. A Pontecorvo Zucchi non può avere grandi forze, e presto lo saprò con precisione. Qui é il sito di dare il primo assalto e poi con aria imponente gettarsi sulla stradale di Sulmona, scompigliare le truppe dell'Aquila e dominare tutti gli Abruzzi. I principi di reazione dipendono dal ritiro delle truppe dai confini e con quel capo svanirebbero affatto sull'istante. Una colonna di 1000 uomini che agisca in quel modo é giudicata di 10.000 e spaventa tutti.

L'iniziativa cadendo in Terra di Lavoro é molto probabile che si risvegli l'insurrezione e questa susciterebbe quella degli Abruzzi, la quale mi pare che non sia poi del tutto incredibile dopo i tanti sintomi che ha manifestati. Approvandosi il progetto, converrà scrivere innanzi tutto in Sicilia, mandando inviato ed esponendolo come fatto già compiuto a riguardo loro. Il colpo considerandolo dal lato del fatto d'armi, o va bene e ne ritrarremo immenso vantaggio; o non riesce, e nessuna perdita veniamo a soffire, perché presa una montagna si rientra nello Stato senza essere neppur visti....
Il generale mi ripete ogni momento questo pensiero, con un'anima che ha già divorate tutte le difficoltà. Voi non lo conoscete ancora bene, ed io vi assicuro di scoprire sempre in lui qualche cosa di nuovo e di meglio. Avete fatto Avezzana ministro della guerra. Sta bene. Perché dimenticate del tutto Garibaldi? Credetelo, é uomo che può dare buone idee e buoni consigli, almeno con una purezza d'intenzioni che pochi potranno uguagliare.
- Vengono, i Lombardi !... Ricordatevi che Fanti é fuggito da Milano, ed io come aiutante di Arduino allora, mi trovavo in grado di poter giudicare il suo procedere. Eravamo affatto traditi; era tutto consumato; lo sapeva - si fece strumento del re per velare l' orrenda rovina.
Vostro DAVERIO"

Ma tutti questi magnanimi propositi che i triumviri di grand'animo avrebbero assecondati, si dissipavano davanti ai precipitarsi degli avvenimenti del marzo e dell'aprile.
In Piemonte il nuovo re andando in persona alla tenda di Radetzky ottenne ben poche modifiche dei primi patti.
Ecco i patti: sciolte le milizie lombarde, ungheresi e polacche, sgomberati subito i ducati, richiamata l'armata sarda dall'Adriatico, occupata Alessandria con guarnigione mista; balìa a 20,000 austriaci di accamparsi fra il Ticino, la Sesia e il Po.
Il Ramorino fu fucilato per tutti i traditori. I bresciani che corsero all'armi con disperata risoluzione aspettando i promessi soccorsi, rifiutarono la taglia di guerra imposta dal comandante del presidio, e trucidarono quanti austriaci incontravano per le vie. Nugent occupò i colli; i cittadini rifecero le barricate, inalberarono bandiera rossa e nonostante il rifiuto di La Marmora di accorrere dall'Emilia in loro soccorso, sfidarono le schiere di Haynau. Il quale, dopo una incomparabile resistenza di dieci giorni di quella gloriosa città, sfogò la sua brutalità principalmente sulle donne da quel vile che era.
"Sbranati gli istinti, e gettati i pezzi a ludibrio contro i frantumi delle barricate; braccia di donne, teste di fanciulli rotolanti per l' aria, prigionieri in mille barbare modi, straziati e cavati gli occhi davanti le loro donne; e intanto il barbaro soldato sghignazzare nelle loro convulsioni di morte e talora strapparne i visceri e cacciarli in bocca ai morenti per soffocarne i gemiti estremi"

Ai genovesi insorti perché volevano continuata la guerra fu mandato il bombardatore Alfonso La Marmora, che fece contro di essi ciò che per salvare Brescia dagli austriaci si rifiutò di fare.

Il 6 aprile il Filangeri vinse a Catania, il granduca di Toscana ripudiò le riforme da Gaeta; e ciò che più ha meravigliato tutto il mondo civile, il 21 aprile partì da Marsiglia la spedizione francese contro Roma; il più sospettoso nemico della Francia non l'avrebbe creduta capace del delitto che covava in seno il presidente della Repubblica.
Ma soffocare la Repubblica Romana, abituare i generali a tradire, i soldati a uccidere i repubblicani, guadagnare l'appoggio dei preti e dei gesuiti, restituendo la corona al Papa, era, per il Bonaparte, preparazione alla morte di quella e alla risurrezione dell'Impero. E purtroppo nella vanità, nella millanteria della grande nation, egli trovava facile consenso, docili strumenti, mentre nell'eterna buona fede degli italiani, nella loro credulità verso il liberalismo francese, trovava il terreno adatto ai suoi disegni.

Torna sempre difficile riferirsi ad uno stato anteriore di vedute e di credenze distrutte. - La poi successiva profonda corruttela della Francia in ogni ramo della vita pubblica sotto l'Impero é notoria, ci fa stupore che uomini di senno e di cuore prestassero fede alle sue promesse e alla sua parola.

Ma nel 1849 non era così. Poteva arguirsi che l'Austria vincendo il Piemonte e domandando Venezia avrebbe tentato di restaurare il Papa come il granduca di Toscana: o che il Piemonte, se vincitore, avrebbe debellato la Repubblica e costretto il Papa alla confederazione; e che Napoli avrebbe rotto una lancia per il suo ospite a Gaeta.
Ma la Francia repubblicana, quale ragione aveva di abbattere la Repubblica in Italia? Non era interesse suo avere alleata e amica quella Roma, fino allora protettrice del diritto divino dei Re?
Non poté la Francia illudersi di esser la benvenuta in Italia. Ledru Rollin cantò chiaro ai suoi compatrioti:
"L'Italia non vuole saperne di noi, nemmeno per salvarsi dall' aborrito giogo austriaco".

E quando Cavaignac in dicembre volle spedire soldati sulle coste d'Italia, puramente per proteggere il Papa, proposta combattuta dal deputato Luigi Napoleone, il Ministero romano e l'Assemblea protestarono con solennità in faccia all'Italia e all'Europa contro la invasione francese preparata e deliberata dal generale Cavaignac con queste parole:
"che alle sue truppe sarebbe secondo le nostre forze impedita l' entrata e la violazione del territorio nazionale, nel così fare intendevamo di difendere l'onore non solo degli Stati romani ma di tutta quanta Italia e di assecondare la ferma volontà e deliberazione di tutti i suoi popoli".

L'energia dei fatti rispose alle energiche parole e si provvide ad impedire qualsiasi sbarco di armati a Civitavecchia; fu rinforzata la guarnigione; istituita una Giunta di pubblica sicurezza: e popolo e guardia civica con un animo solo corsero ad aiutare la milizia quando, il 22 gennaio, due legni da guerra spagnoli tentarono di approdare: ma avvedutisi dell'ostile contegno questi si allontanarono.
E la Commissione di difesa, proposta da Mazzini e nominata dall'Assemblea costituente il 19 marzo allo scopo di meglio tutelare la Repubblica per terra e per mare, concentrò ogni potestà in un Comitato di difesa, composto del preside della provincia Mannucci (in cambio di monsignor Buccosanti); del comandante della fortezza maggiore Barsanti, in fama di liberale gagliardo e di consigliere di estremi partiti; e del comandante della marina colonnello Cialdi.
Il forte fu munito di 120 cannoni; 12 più di quanto n'ebbe Roma durante l'assedio; il presidio sommava a 700 uomini.
Per ottenere il proprio scopo, il Bonaparte doveva superare tre difficoltà: le ripugnanze e l'opposizione dei liberali in Francia: lo sbarco e l'entrata in Roma; la tacita approvazione dell'impresa per parte del Papa e dei suoi in Gaeta presso i quali egli era mal visto, e che essi avevano invocato il solo aiuto di Napoli, dell'Austria, e della Spagna.

Il 16 aprile il ministro Barrot domandò la somma di 1.200.000 franchi: Giulio Favre, approvò la domanda, Victor Hugo disse: "L'Assemblea ha deliberato la spedizione di Roma nel doppio intento umanitario e liberale di bilanciare gli effetti della battaglia di Novara, e di mettere la spada della Francia dove sarebbe calato il fendente dell'Austria."
Perfino Ledru Rollin, amico sincero dell'Italia, aveva ammesso "che il partito estremo tende a lasciare lo svolgimento del dogma cattolico in balìa del caso; benché ciò in astratto sia conforme al vero, in realtà vi ripugna perché l'indipendenza spirituale del Papa costituisce un interesse e un diritto politico delle potenze estere. "

L'Assemblea accordò il denaro: prima difficoltà vinta. Il 20 aprile Oudinot salpava da Tolone con le istruzioni esplicite. "Tutte le informazioni che ci pervengono - gli scriveva O. Barrot, danno luogo a pensare che sarete ricevuto con entusiasmo dagli uni come liberatore, dagli altri come mediatore, davanti ai pericoli della reazione. Se però contro ogni verosimiglianza si pretendesse impedirvi l' entrata in Civitavecchia, voi non dovrete arrestarvi per la resistenza oppostavi in nome di un governo, che nessuno ha riconosciuto in Europa, e non si mantiene a Roma che contro il voto della immensa maggioranza delle popolazioni."

Doveva Oudinot poi ricevere gli ordini da Gaeta e agire in conformità dei medesimi: ritenere le nuove autorità civili o ripristinare le decadute o nominarne altre secondo i casi: agire insomma da servo del Papa, da padrone dei romani.
Ma tali istruzioni per intanto rimanevano segrete. A Marsiglia, il 20, Oudinot non parlava di Papa né di governo papale da restaurarsi; ma solo del vessillo francese da inalberarsi sul territorio romano, per testimoniare la simpatia della Francia per i romani; i quali non dovevano soggiacere a straniera potenza né a governo di demagoghi impostisi.

E poi da bordo avvertiva gli abitanti degli Stati romani che era venuto non per difendere il presente governo, che la Francia non aveva mai riconosciuto, ma per sottrarli a grandi sventure, e facilitare la fondazione di un regime egualmente lontano dagli abusi che la generosità di Pio IX aveva irrevocabilmente distrutti, e dall' anarchia di questi ultimi tempi.
Rimane sempre ardua cosa dopo un così simile proclama e dopo la risposta del Mannucci comprendere come ai francesi sia riuscito lo sbarco. Se non ci ammaestrassero i tanti errori che sogliono commettersi in momenti di crisi da patriotti buoni ma non sufficientemente calmi, saremmo complici nel pronunciare la parola traditore o codardo all'indirizzo di chi non era che debole.

Scesero a terra tre ufficiali francesi e si presentarono al Preside, il quale si riservò di avvertirne il governo: e quando Espivent insisteva che dovessero i francesi, appena fosser giunti, esser ricevuti, Mannucci minacciò resistenza.
Fece male il Mannucci a non insistere che gli ufficiali francesi tornassero immediatamente a bordo, perché Espivent accortosi della cattiva impressione fatta dal primo proclama di Oudinot sulle poche persone raccolte nella residenza del Preside, lo lacerò e scrisse l' altro che troviamo nel solo libro del generale Torre.

Intanto il governo di Roma, avvertito solamente del voto dell'Assemblea francese e pur non immaginando che prima dell' adesione di Gaeta si sarebbe effettuata la spedizione, aveva spedito ad ogni modo un battaglione di bersaglieri sotto Melara, il quale prima di lasciar Roma ripeté ai suoi ufficiali le parole che Mazzini aveva rivolto ai medesimi: Esser loro dovere difendere il suolo della Repubblica contro qualunque straniero e da qualunque parte esso venisse.
E giunti a Civitavecchia prima dello sbarco dei Francesi, giurarono tutti di resistere. La sera, Mannucci fece alzare il ponte del forte e chiudere le bocche del porto, e ricevuti da Roma gli ordini precisi di impedire lo sbarco, alle quattro ant. del 25 li comunicò al console francese soggiungendo che egli li avrebbe energicamente eseguiti. E convocò senza indugio un consiglio di guerra.

Frattanto il popolo tumultuava, e gli astuti francesi, i preti e i moderati lo avevano persuaso essere una pazzia resistere alla Francia che mandava le sue schiere per combattere l'Austria. E riesce inconcepibile l'indirizzo della magistratura, della camera di commercio e della guardia nazionale al preside della provincia.
Il preside cedette: questo suo orrore diventò delitto e le sue conseguenze furono irremediabili. Oudinot, messo il piede in Civitavecchia, disarmò il battaglione Melara, obbligò i bersaglieri di Manara appena arrivati di non sbarcare che a Porto d'Anzio, e con la parola incautamente data dal Mannucci che questi non avrebbero preso parte alle ostilità fino al 4 maggio, chiuse l'unica stamperia, perché nell'indirizzo, che pur era servile, del municipio, si leggeva "che il papato era prima sorgente delle sventure d'Italia non interrotte da secoli;" sostenne in carcere Mannucci, e occupò il forte, fissando a Civitavecchia la propria base d'operazione, e, in caso di necessità, la linea di ritirata.

Fu lieta ventura per Rocca che Mazzini, eletto triumviro il 29 marzo, divenisse capo e anima dei romani. Egli, comprese, nonostante l'asserzione dei capi stessi della guardia nazionale, che i romani avevano l'animo risoluto di difendere Roma gloriosamente.
Fra lui e il popolo si strinse il tacito patto di non contare il numero, di non speculare se si potesse vincere, ma di proteggere in Roma il centro, il cuore, il palladio d'Italia.
Lo stupore per la condotta dei cittadini e delle autorità di Civitavecchia diminuisce quando si pensa che nell'assemblea, nel seno stesso dei triumviri, si discuteva, dopo lo sbarco dei francesi, se si dovesse riceverli in Roma o respingerli.

Mazzini, sicuro del popolo, sicuro del voto della maggioranza dei deputati, non volle usare la benché minima pressione sull'assemblea. L'ordine del giorno del 20 aprile di Oudinot e le melliflue dichiarazioni dell'Espivent giunsero contemporanei ai triumviri. Questi in compagnia dei ministri e del presidente dell'assemblea, corsero a Montecavallo, e, convocata l'assemblea in seduta pubblica, davanti le tribune affollate e frementi, fu firmata una protesta contro l'invasione del territorio della Repubblica, e l'assemblea dichiarò suo fermo proposito di resistere, rendendo garante la Francia di tutte le conseguenze.

Spedita la protesta per mezzo di Rusconi e Pescantini, questi, il 25, s'incontrarono con gli inviati di Oudinot, il colonnello Leblanc e altri due ufficiali di stato maggiore, i quali narrarono ai triumviri le amorevoli accoglienze di Civitavecchia e domandarono promessa di pari ricevimento da Roma.
Leblanc disse francamente che lo scopo della spedizione era di preservare lo Stato dall'invasione austriaca, di appoggiare quel governo che la maggioranza delle popolazioni avrebbe scelto; e di procurare la conciliazione perfetta fra Pio IX e il popolo romano.
In questo mezzo i due commissari della Repubblica trovarono Oudinot costernato della protesta, indignato della parola "invasione". Egli non pronunciò verbo della restaurazione del papa, insistette sull'inevitabile intervento austro-napoletano, sulla inevitabile intenzione della Francia di domare la reazione in favore dell'assolutismo e spedì il capitano Tabar presente al colloquio per riferire al triumvirato le sue buone disposizioni.

Ma alla prima seduta del 26, Mazzini espose all'assemblea le pretese e i disegni annunciati da Leblanc, e dopo un solo quarto d'ora di consiglio segreto, il presidente lesse fra l'indescrivibile entusiasmo del popolo il seguente decreto:
"L'assemblea, dopo le comunicazioni avute dal triunvirato, dopo libera e matura discussione, ha deliberato all'unanimità che debba il triunvirato salvare la Repubblica respingendo la forza con la forza."

L'arrivo del capitano Tabar però aveva smosso l'animo di Saffi e di Armellini. Quell'astuto disse erronea la interpretazione di Leblanc intorno alla spedizione, la Francia volendo libera la volontà nazionale, e impedire soltanto gli effetti di altri interventi stranieri.
Fu necessario comunicare anche questo all'assemblea che sedeva in permanenza. Mazzini, per non aver l'apparenza di fare pressione, non si presentò. Saffi fece la relazione: il pubblico al sentire tante gesuitiche reticenze proruppe in segni rumorosi di disapprovazione. Saffi si limitò a ripetere le parole di Tabar. Cernuschi disse con senno che "quali fossero le intenzioni della Francia, essa avrebbe sempre maggior riguardo agli interessi italiani quanto più noi faremo vedere di curarli noi medesimi: ora io dico, che nell'interesse italiano, nell'interesse dalla libertà, nell'interesse della Repubblica romana, Roma non può avere guarnigione che della guardia nazionale di Roma."

Sterbini osservò che essendo risoluto il generale di entrare in Roma per forza, con la forza i romani dovessero respingerlo.

Attonita l'assemblea e le tribune ascoltavano il triunviro Armellini perorare per ricevere i francesi protettori contro gli austriaci, e i napoletani, osservando che quelli avrebbero soltanto condotto il papa alla sua cattolica residenza, che Roma sarebbe rimasta repubblica, che potevano coesistere egregiamente il papa al Vaticano, il triunvirato al Campidoglio, i francesi in città !

Ribatté l'insulso discorso lo Sterbini; assemblea e tribune fremevano; il decreto fu confermato. E si capisce il lungo respiro dì gioia, onde Mazzini scrisse il proclama ai romani:
"L'Assemblea ha decretato che la Repubblica sarebbe salva e che alla forza opporrebbe a la forza.
Siano rese grazie a Dio ch'ispirava il decreto.
L'onore di Roma é salvo. La storia non potrà dire che fummo codardi."

Mentre la sublime virilità di queste parole ci convince sempre più che Mazzini e i romani erano degni gli uni dell'altro, non si può trattenere il sorriso vedendole sottoscritte anche dal buon Armellini.
L'ordinamento della difesa, che aveva proceduto diligentemente dai primi momenti, divenne quindi febbrile. Mazzini dal suo primo arrivo in Roma aveva insistito presso l'assemblea per la nomina di una commissione di guerra intesa ad ordinare l' esercito, partendo dall'idea che la difesa dovesse concentrarsi in Roma.
Invece di tener sparpagliata la poca milizia lungo la frontiera napoletana, stabilì due soli campi, uno a Bologna, uno a Terni, di modo che il primo, ove non gli riuscisse di tener fronte agli austriaci, potesse attraverso la via di Foligno congiungersi a quello di Terni. Il triumvirato, il ministro della guerra (Avezzana milite del 21, esule e difensore di Genova), la commissione di guerra, la commissione delle barricate, i capi della guardia nazionale, i deputati e capi del popolo, nella settimana fra lo sbarco e le prime armi, agirono con incredibile unanimità e celerità.

Durante la guerra, la forza disponibile dell'esercito della Repubblica non superò mai i 18.668 uomini di cui 11.628 regolari, 7.040 irregolari. E questa cifra comprendeva l'ambulanza e l'intendenza, lo stato maggiore, e persino gli adolescenti della legione della Speranza.
E risulta che i combattenti erano: di Roma e degli Stati Romani 16.465, italiani di altre province 1875, stranieri 328.
Avevano all'inizio 84 cannoni; altri 24 furono fusi durante l'assedio o arrivarono da Fiumicino, da Porto d'Anzio, ecc.: in tutto, 108; nella maggior parte irrugginiti o con le canne difettose e alcune guaste.
Mancavano poi i proiettili, e fu necessario tener quattro forni accesi giorno a notte; la munizioni erano scarsissime e in questa parte gli artificeri romani si segnalarono per attività: fino allora occupati a fabbricare campane e campanelli per chiesa, si diedero a tutt'uomo a preparare palle e granate; mentre i falegnami apparecchiavano i tacchi e le spolette, durante la notte gli stagnai fissavano questi tacchi alle granate e gli artieri caricavano le spolette e a mano a mano le spedivano al posto.
Così per i cartocci; così per la difficile fabbricazione della polvere: donne e ragazzi diretti da soldati fabbricavano le cartucce con tale rapidità da provvederne al bisogno giornaliero.

La commissione delle barricate - Cernuschi, Cattabene, Caldesi - si immedesimava col popolo. C'é tale semplicità e vigore ne' suoi scarsi proclami che non può idearsi di meglio. La Commissione si era convinta del fatto che ogni strada doveva esser difesa, ogni porta chiusa al nemico. E tanto avvenne. "Che il popolo continui come ha cominciato - dice un proclama - La scienza delle barricate é come quella della libertà. Ognuno ne é maestro. Insomma é deciso: il governo de' preti non lo vogliamo più. L'Impero francese vorrebbe farci questo regalo. Se lo tenga per lui. Mantenete ancora quell'ordine che essi chiamano anarchia e la Repubblica ha vinto."

Nulla fu dimenticato: commissioni per i feriti; per i poveri mancanti d'alloggio; per la protezione degli stranieri, e specialmente dei francesi dimoranti in città.
Avezzana e molti deputati passando in rassegna la guardia nazionale furono commossi alle grida di Viva l'Italia, Viva la repubblica, che riecheggiarono nella Piazza del Vaticano. Ai soldati dissero giustamente: "Il popolo romano si é levato romanamente".
Difatti tutte le contrade erano pronte alla difesa, in ogni rione i capipopolo e i deputati appositamente scelti avevano provveduto alle munizioni, alle sussistenze, alle comunicazioni fra barricata e barricata. E al popolo si diceva: "La difesa militare é combinata, le milizie d' ogni genere fanno e faranno il loro dovere. Il municipio romano, repubblicano come noi, ha provveduto abbondantemente di farina, di carne e di ogni commestibile la città. Popolo romano, tocca ora a voi di fare il vostro dovere. Popolo, all' armi!" .

Chi percorse Roma la sera del 29 non poté dubitare della risoluzione universale di combattere, e allo stesso tempo c'era un'aria festiva che rendeva ammirati i consoli stranieri, e i cittadini italiani delle altre province. Novemila uomini dell'esercito erano arrivati, Avezzana avendo chiamati in fretta tre reggimenti dall'Ascolano e la legione di Garibaldi da Frosinone.

Che spettacolo dal Gianicolo, chiave e palladio della difesa! Questo monte fu considerato dai romani antichi chiave dell'Etruria, e dai nemici chiave di Roma. Numa Pompilio vi costruì un tempio al dio Giano che, secondo la leggenda, aveva qui eretta la città di Antinopoli, e questo «Giano dalle due faccie» é sempre rappresentato con una chiave in mano.
Anco Marzio, nipote di Numa, per proteggere il sepolcro dell'avo, il quale conteneva anche i libri delle sue leggi, e il Pons Sublicius, quel primo ponte di pile di legno, gettato da esso sul Tevere, fortificò il Gianicolo.
È tradizione che a Tarquinio Prisco, nativo dell'Etruria, giunto al monte, un'aquila gli abbia ghermito il berretto; e che , dopo un volo sopra la città, glielo rimettesse in capo. Tarquinio, pedagogo dei figli di Anco, alla morte di questo si fece eleggere re dal popolo, costruì la cloaca massima per facilitare lo scolo delle acque del Velabro, che s'impaludavano fra il Palatino e l'Aventino; monti sacri, i quali con le altre quattro colline il suo successore circuiva la famosa cinta, detta "aggere" di Servio Tullio.

Dal Gianicolo l'infame Lucio Tarquinio, tentando per la terza volta la propria restaurazione coll'aiuto di Porsenna, giunse al ponte Sublicio di sorpresa, e sarebbe passato se Orazio Coclite e altri valorosi non l'avessero difeso contro l'oste etrusca, mentre i romani lo demolivano alle loro spalle: e Orazio, rimastovi solo, si gettò con le ultime travi del ponte nel fiume, gridando: "Pregoti, o padre Tevere, di ricevermi e trarmi all'altra sponda."

E quando Porsenna, fallita la sorpresa, dal Gianicolo assediò la città, Caio Muzio Scevola tentò ucciderlo e, scoperto e condannato a morire sul rogo, per punire la mano che aveva fallito, la cacciò nel fuoco dell'altare per mostrare il disprezzo del dolore a pro della patria; e Clelia, data sul Gianicolo in ostaggio a Porsenna con altre vergini, persuase le compagne a fuggire e attraversare a nuoto il Tevere.
Favole, queste ci dicono oggi gli eruditi, e forse lo sono, ma esse ispirarono molte generazioni a gesta virili e hanno almeno altrettanto fondamento e più efficacia della leggenda di S. Pietro crocifisso a capofitto sul Gianicolo, là ove Costantino eresse un oratorio e più tardi Ferdinando e Isabella di Spagna edificarono la basilica di S. Pietro in Montorio, donde il campanile domina la città e la circostante campagna.

Quante volte sul Gianicolo, dopo che il sole era tramontato dietro Roma, aspettando la comparsa dell'Orsa maggiore sull'orizzonte, ci é parso di veder di là sorgere la stella d'Italia! E intorno alla stella di prima grandezza quella splendida costellazione di stelle di varia luce, simboli di quegli eroi che intorno a Garibaldi si raggrupparono, né da lui si staccarono se non quando, stelle cadenti, scomparvero per sempre dal firmamento !

E che spettacolo dal Gianicolo la sera del 29-30 aprile, - dal Gianicolo chiave e palladio della difesa.
Questo monte, che il Trastevere separa dal Tevere, sorge ripido da quella parte, ma scende dolcemente nella campagna verso Civitavecchia. Dal forte di S. Angelo partono le mura che circondano la città leonina e raggiungono il fiume al bastione di S. Spirito, racchiudendo la portentosa mole del Vaticano il di cui monte si protende nella campagna ed é, a settentrione, dominato da monte Mario.
Altra cinta si sviluppa da Porta Cavalleggeri, forma quasi un angolo retto con la città leonina, e comprende 11 bastioni; sale il Gianicolo e per porta S. Pancrazio degrada fino al Tevere a Porta Portese. Un altro muro separa Borgo o città Leonina dal Trastevere, ma la via Lungara, che passa per la Porta di S. Spirito, unisce Borgo a Rione. Da Porta Portese a Porta S. Paolo, per ben tremila metri, la città non ha altro scudo che il fiume.

Dalla Porta S. Paolo alla porta Appia, a sinistra del fiume, sorgono i bastioni di S. Gallo e le mura di Onorio, che girano monte Testaccio e formano la cinta meridionale della città. Partendo dal Tevere sotto la Farnesina al nord, o dal terzo bastione della cinta urbana al sud, essi convergono all'antica Porta Aurelia, oggi S. Pancrazio; il vecchio recinto aureliano.
Fuori di S. Pancrazio, la campagna é ingemmata di ville e di parchi: il Vascello; Villa Valentini alla destra dell' acquedotto dell'Acqua Paola, l'antica Alsietina; Villa Pamphili; Villa Corsini e la chiesa e convento di S. Pancrazio alla sinistra; monte Verde al sud, che fa riscontro a monte Mario al nord.
Un triangolo coll'apice a S. Pietro in Montorio e la base appoggiata a questi due monti configura il teatro della lotta.

Ora s'immagini Monte Mario, donde si scorgevano i fuochi del campo francese, occupato da un piccolo corpo mobile di finanzieri, s' immaginino mura e bastioni a cui manchino fosse, spaldi e opere avanzate, presidiati alla cima e al piede dalla 2a brigata sotto Masi, fra Porta Cavalleggeri e Porta Angelica, dalla 1a brigata sotto Garibaldi, fra Porta Portese e S. Pancrazio, dando mano a Masi a Porta Cavalleggeri; dalla 4a in piazza Cesarini e S. Filippo; dalla 3a di cavalleria in Piazza Navona e in Piazza S. Pietro; dai bersaglieri lombardi; e vicino a S. Angelo, dai carabinieri obbedienti a Galletti.

Tutti quanti, l'arma al piede durante la notte; le case illuminate, il popolo in attesa; la campana del Campidoglio che doveva annunciare l'assalto del nemico.
Tale era lo spettacolo che si contemplava dal Gianicolo il 29 aprile 1849.